Crisi in Sudan: il contesto interno e gli effetti sulla migrazione

Dallo scorso aprile si è aperta l’ennesima pagina di violenze che ormai da anni affliggono il Sudan e contribuiscono a deteriorare il contesto politico, economico e sociale già molto fragile. In questo caso, lo scontro armato è esploso tra la milizia delle Forze di supporto rapido (Rsf), guidate dal generale Mohammed Hamdan Dagalo (conosciuto come Hemedti), e l’esercito regolare, guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, e ha già causato oltre settecento vittime e circa cinquemila feriti.

Dal golpe del 2019 attuato contro Omar al-Bashir fino al 15 aprile scorso, al-Burhan e Dagalo hanno condiviso il potere politico, ricoprendo la carica di presidente e vicepresidente del Consiglio di Sovranità del Sudan, governo ad interim a guida oggi esclusivamente militare. Al fine di comprendere la portata dell’attuale crisi sui flussi migratori dal Sudan nella regione saheliana e verso il Mediterraneo, è utile inquadrare brevemente lo stato di crisi politica e socioeconomica che il paese vive già da anni.

Militari a Khartoum, Sudan 2019. Fonte immagine: Ayin network – شبكة عاين (3ayin.com)

Nella prima fase della transizione, a guida sia militare che civile (2019-2022), al-Burhan e Dagalo hanno mantenuto degli ottimi rapporti e costituito un fronte compatto, opponendosi non troppo velatamente alla condivisione del potere politico con i civili delle Forze di libertà e cambiamento (Flc). Infatti, nell’accordo di Juba del 2020 con cui fu sancita la ripartizione delle cariche politiche con le Flc, i militari scelsero di ricoprire le posizioni più importanti all’interno del Consiglio di Sovranità, garantendosi in questi anni l’immunità dalla condanna per violazione dei diritti umani e crimini di guerra. Inoltre, affidando l’arduo compito di risollevare il paese dalla crisi socioeconomica alla sola controparte civile al potere, i militari hanno potuto canalizzare su questa l’insoddisfazione della popolazione per l’incerto rilancio economico e gli effetti della pandemia da Covid-19, sfruttando l’occasione per attuare un semi-golpe nell’ottobre 2021, che ha portato alle dimissioni di tutti i ministri civili e ritardato la transizione alla civilian rule.

Tuttavia, l’alleanza tra i due generali è sempre stata un “matrimonio di convenienza”, basato principalmente sulla condivisione del potere politico e sulla garanzia di indipendenza della milizia delle Rsf dalla restante compagine militare. Infatti, la crisi tra al-Burhan e Dagalo, degenerata in conflitto lo scorso 15 aprile, sembra essere stata causata dall’apertura più concreta del presidente ad interim verso l’instaurazione di un governo a guida esclusivamente civile. Dalla fine del 2022 sono state infatti avviate delle consultazioni con diverse associazioni, comitati e le Flc, risultate poi nella firma dell’accordo preliminare tra il leader sudanese e la coalizione politica civile. Normalmente, il completo passaggio al controllo civile delle istituzioni politiche comporterebbe l’inclusione delle Rsf nell’esercito, unica milizia esclusa dal processo di reintegro di tutti i gruppi armati nelle forze regolari dopo il golpe del 2019, e soprattutto per Hemedti e altri militari ciò significherebbe la perdita dell’immunità sui crimini commessi durante il regime di al-Bashir.

Come è facile intuire, la continua presenza dei militari al potere, le negoziazioni fallimentari con i civili e le interruzioni del processo di transizione politica hanno gravato fortemente sulla condizione socioeconomica della popolazione: ne è un esempio il tasso di inflazione registrato al 300% nel 2021, passato poi al 100% nel novembre del 2022 e all’87% nel gennaio 2023. Inoltre, nonostante le evidenti criticità, nel marzo 2023 il Ministero delle Finanze ha approvato il budget annuale, destinando una quota significativa alla spesa militare e lasciando ai margini gli investimenti necessari nel settore dell’istruzione, della sanità, delle infrastrutture e dei servizi. Oggi, a questo quadro di instabilità politica e socioeconomica si somma il conflitto armato che obbliga la popolazione a ricercare una condizione migliore sia all’interno del paese stesso (lontano dall’area degli scontri) sia nei paesi limitrofi.

Secondo il report dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), a causa della crisi in corso 25 milioni di sudanesi, ovvero la metà della popolazione, necessitano di assistenza umanitaria. Si registrano, inoltre, circa 850 mila sfollati interni e 259 mila profughi, la maggior parte dei quali ha attraversato le frontiere per raggiungere Egitto, Ciad, Etiopia, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan e Libia – principali paesi di arrivo che si trovano a dover gestire grandi flussi migratori.

Paesi di arrivo per percentuale di ingressi registrati dal Sudan tra aprile e maggio 2023. Fonte dati: Unhcr (ultimo aggiornamento 19/05/23)

Secondo le stime dell’Unhcr, l’Egitto registra il flusso migratorio più importante: sono circa cinquemila i migranti che attraversano ogni giorno il confine meridionale tra Aswan e Qastul ed è stata ormai superata la soglia dei 110 mila ingressi dal Sudan a partire dallo scoppio del conflitto. Nonostante l’assistenza fornita anche dalla Mezzaluna Rossa, la periferia egiziana non sembra essere pronta a gestire l’arrivo dei profughi: nelle ultime settimane l’ingresso nel paese è stato ridotto da 30 a 25 autobus al giorno adibiti al trasporto dei migranti, le procedure per ottenere il visto richiedono circa un mese di tempo e le condizioni igienico-sanitarie sono piuttosto critiche, così come negli altri paesi. In Sud Sudan si contano circa 1500 ingressi al giorno; tuttavia, sul totale dei 63 mila profughi accolti dallo scoppio di questa crisi la maggior parte è di origine sud-sudanese (returnee). Anche in questo contesto le maggiori difficoltà si riscontrano nell’assenza di infrastrutture preposte per l’accoglienza e di reti di trasporto adeguate nelle immediate vicinanze del confine che possano consentire la gestione del flusso. Sono 20 mila invece gli ingressi in Ciad, dove tuttavia si prevede una battuta d’arresto dovuta all’arrivo della stagione delle piogge. Inoltre, l’alto tasso di povertà e la proliferazione dell’attività terroristica di Boko Haram rendono il paese estremamente insicuro e fragile. In Etiopia gli ingressi registrati dal Sudan sono circa dieci mila, ma anche in questo caso la situazione al confine risulta piuttosto complicata, dati gli scontri tra l’esercito regolare etiope e le milizie tigrine. La Repubblica Centrafricana è il quarto paese di destinazione dei profughi del Sudan, registrando circa 10 mila ingressi che, come in Ciad, riscontrano diverse difficoltà dovute alla carenza di infrastrutture, all’arrivo della stagione delle piogge e all’alto tasso di insicurezza alimentare. Infine, occorre considerare la Libia tra i paesi di destinazione: secondo i dati dell’Oim, precedentemente allo scoppio del conflitto il 19% del totale dei migranti in Libia era di origine sudanese e la maggior parte di essi era giunta ad al-Kufra, principale punto di accesso e passaggio della rotta migratoria saheliana e subsahariana verso il Mediterraneo. Gli ingressi in Libia sono decisamente più bassi rispetto ai paesi già menzionati: attualmente quelli registrati dall’Oim sono circa settecento e tendenzialmente potrebbero diminuire data l’instabilità del contesto locale.

Area di Khartoum colpita dagli scontri tra Rsf ed esercito regolare. Fonte: Sudan Tribune

Dal quadro attuale, si evidenzia che il conflitto ha generato principalmente uno spostamento della popolazione interno al Sudan; tuttavia, qualora il conflitto non dovesse arrestarsi e i flussi migratori non dovessero attenuarsi, la stabilità degli altri contesti della regione saheliana e nordafricana potrebbero essere ulteriormente compromessi. Relativamente agli ingressi nei paesi del Nordafrica, occorre ricordare che i migranti che arrivano sulla sponda nord del Mediterraneo partono principalmente da Libia e Tunisia e dunque è possibile che, protraendosi, il conflitto possa influenzare direttamente la rotta migratoria del Mediterraneo centrale.

Al fine di stabilizzare la situazione in Sudan ed evitare il completo collasso del paese, è necessario nel breve termine concordare un cessate il fuoco che sia osservato da entrambe le parti in conflitto, garantendo alla popolazione l’accesso ai beni essenziali e all’assistenza umanitaria. Invece, in sede di colloqui di pace e mediazione si dovrebbe intervenire direttamente sulle root cause che hanno determinato il golpe del 2021 e l’attuale crisi, ovvero giustizia di transizione e riforma del settore di difesa e sicurezza. Occorre ricordare che nella storia sudanese il ricambio dell’élite al potere è avvenuto quasi sempre per colpo di Stato e i militari sono sempre stati i protagonisti della scena politica anche nei governi civili di breve durata. Si dovrebbe pertanto dialogare con i militari esclusivamente per risolvere le ragioni alla base del conflitto. Se si discute invece della futura transizione del paese alla civilian rule attraverso la programmazione di elezioni democratiche, il confronto con al-Burhan e Dagalo continuerebbe solo a qualificare i militari come unici interlocutori della scena politica. Sebbene non vi siano partiti politici ben strutturati che attualmente possono formare delle coalizioni e guidare il paese, è necessario che il dialogo sulla transizione avvenga con la società civile in senso più ampio: associazioni, sindacati, commissioni civili, gruppi informali, leader locali e regionali e personalità più prominenti. Infine, anche in relazione alla gestione dei flussi migratori, sarebbe necessaria anche la partecipazione nella risoluzione dello stato di crisi del Sudan dell’Unione Europea, oltre al coinvolgimento di Stati Uniti, monarchie del Golfo, Unione Africana e Onu.

Maria Grazia Stefanelli